Etica e tecnologia, il Teatro incontra L'Università
12 luglio 2022 — 21 minuti di lettura
Nello storico Piccolo Teatro di Milano, Laura Curino e Paolo Volonté, partendo dal racconto dello spettacolo "Big data B&B", nato in collaborazione tra Piccolo Teatro e Politecnico di Milano, conversano liberamente su legami e distanze tra etica e tecnologia.
Siamo ospiti oggi del Piccolo Teatro Grassi, questa sala storica del teatro milanese, con Laura Curino, in occasione dello spettacolo “Big data B&B” che Laura ha scritto e mette in scena qui al Piccolo teatro di Milano.
Siamo qui, e con Laura, perché questo è uno spettacolo che il Politecnico ha co-prodotto con il Piccolo Teatro, cioè frutto di una collaborazione tra università e l’ente teatrale. Laura, che cosa hai voluto dire con questo spettacolo, in questa occasione di collaborazione?
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Big data B&B è il titolo di uno spettacolo, uno spettacolo fatto insieme col Piccolo Teatro di Milano e con il Politecnico di Milano per discutere di tecnologia.
Discutere io, perché chiacchiero un sacco, e il pubblico mi ascolta per un’ora e mezza, su dei temi non facili, ma estremamente affascinanti.
Intanto attraverso di te, Paolo Volontè vorrei a monte ringraziare di questa opportunità, perché non sapevo di voler dire, prima. Ma nel momento in cui questa collaborazione è entrata in atto ho cominciato a pensare tanto all’argomento e subito mi sono chiesta “quale sarà il messaggio?”. Io sono sempre imbarazzata, ma devo lasciare dei messaggi, come la classica bottiglia nelle onde. Ma qui mi è sembrato abbastanza chiaro: volevo lasciare delle domande, volevo raccontare storie, anche perché è questa la mia abilità nella vita, ma soprattutto chiudere lo spettacolo mettendo in tasca al pubblico una serie di domande, che poi ognuno può articolare e rispondere come crede, anche molto serenamente. Però ecco, più che un messaggio nella bottiglia è uno di quei rotolini che si pescano nelle pesche delle grandi fiere; a ognuno un rotolino, non so cosa ho lasciato, quale domanda ho lasciato a ciascuno, ma sono sicura che qualche domanda gliela abbiamo lasciata.
Questo era proprio quello che ci aspettavamo e che speravamo che venisse fuori da questa collaborazione con una persona, una professionista con un modo completamente diverso di parlare al pubblico rispetto a quello tipico dell’Accademia, dell’Università, degli studiosi. Più diretto, che fa presa. Il nostro problema era far percepire alle persone, alla gente comune, ai nostri concittadini, che la tecnologia oggi è diventata così importante nelle nostre vite che dobbiamo cercare di governarla, di padroneggiarla. Non possiamo lasciare che sia lei a governare le nostre vite, e questa è una cosa di cui ci diamo resi conto, in un’Università tecnologica, forse prima che altrove, e ci siamo resi conto che va bene sviluppare tecnologia sempre migliore, sempre più avanzata, sempre più funzionale, ma dobbiamo anche chiederci in ogni momento “perché la stiamo sviluppando? A qual pro? Per chi? A favore di che cosa?” E non è scontato che il per chi o a favore di che cosa, sia qualcosa di buono, qualcosa di utile e qualcosa che va bene per tutti.
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È vero. Intanto sia l’accademia che lo spettacolo hanno una centralità, che è quella della ricerca, da una parte, e del rivolgersi alle persone, dall’altra. Utilizzare il dialogo come luogo – evidentemente – dell’insegnamento, ma anche luogo dell’apprendimento, perché apprendi ricercando e restituisci insegnando, e questo è molto simile a quello che avviene in teatro. Naturalmente le regole linguistiche sono differenti, è il linguaggio che è differente. E forse li, il teatro ci è utile perché se dobbiamo chiederci “questa tecnologia così pervasiva, che ha a che fare con la nostra vita quotidiana, anche laddove non lo sappiamo e non ce ne accorgiamo, quale punto focale deve avere?” Per me, ma credo anche per un docente, sono le persone, cioè sono qui per le persone. Se ci si dimentica della centralità della persona all’Interno sia del nostro processo di artisti, che del vostro processo di insegnanti, non esiste proprio più la nozione. La nozione di teatro è infatti uno da una parte e uno dall’altra: se quell’altro non c’è, non esiste più il teatro. Il docente è almeno uno di qua, e uno di là, se no non esiste la nozione del nostro lavoro. Quindi credo che questo nostro sodalizio, anche così divergente su tanti punti, sia molto importante, proprio per poter parlare di questo, di tecnologia.
Mi sono resa conto che io posso parlarne da un punto di vista artistico, ma la forza grande in questo momento la possiede proprio l’università, perché penso che per parlare di tecnologia io posso fare – non so come dire – posso porgere questa materia; all’interno dell’università (che in teoria dovrebbe essere un’istituzione libera, poi mi dirai tu se è sempre così), immagino ci siamo gli unici luoghi dove si può riflettere su quando, quanto, dove e per chi è il caso. Perché altrimenti è evidente quanto questa nuova tecnologia sia solo un business enorme, un affare mostruoso, come un affare mostruoso furono le armi atomiche. Le armi sono un luogo di economia, però li ad un certo punto si è venuti a patto con una tecnologia, decidendone dove, quando, per chi, se è il caso… Anche in questo momento siamo lì, siamo a quel punto lì. Ho apprezzato tanto che l’università mi chiedesse di parlare, forse anche per farmi bella, ma devo dire che non ce la avrei fatta da sola: io sono curiosa di questi temi, ma non sarei stata capace di affrontarli da sola.
Senti, a questo proposito io ho trovato veramente affascinante il tuo modo di procedere, sapevo come lavori, ma vedendolo da vicino mi sono reso conto che sei una ricercatrice, oltre che è una drammaturga e un’attrice, perché costruisci i tuoi spettacoli attraverso un lungo lavoro di ricerca e di indagine. Come hai vissuto questa esperienza, nella preparazione di questo spettacolo?
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Malissimo. No, non è vero malissimo, però con tanta fatica. Che poi alla fine uno chiacchiera così allegramente, ma non è stato semplice. Intanto ho un grande piacere nel mettere il naso in affari che non mi riguardano, per questo sono abbastanza nota. L’industria, la scienza, l’economia, la tecnologia… mi diverto moltissimo a mettere in scena Shakespeare o Goldoni o Pirandello, però come artista ho proprio un’attenzione a parlare di quello che succede agli umani adesso, anche attraverso Goldoni, Shakespeare e Pirandello.
A me piace studiare, mi piace il momento di preparazione di un lavoro, e di studio per quel lavoro. Umberto Eco, con un suo testo straordinario, mi insegnò che non bastava fare le fotocopie, ma che bisognava anche leggerle; per questo so che devo prepararmi, almeno per un anno, perché nel frattempo lavoro anche su altro, faccio spettacoli. Quindi in genere – specie se ho delle collaborazioni, ma anche se è una produzione personale – parto prima dalle persone, cioè dalle interviste. Come hai visto, la prima cosa che ti ho chiesto di fare è stata organizzare il dialogo, perché io possa avere un punto di vista, posso cercare delle risposte laddove non so. C’è tanta bibliografia, leggo tutti questi libri, mi guardo tutti questi video, questo lo posso fare. Ma le domande più difficili sono quelle che non mi pongo, che non so che esistono, e per pormi quelle domande, devo parlare con le persone che si occupano proprio di quell’argomento. Quindi prima cosa: interviste, conversazioni e trascrizioni, richiamare “cosa hai detto?” “Mi hai detto questo, ma cosa vuol dire?” Poi passo alla bibliografia: in parte la chiedo ai miei collaboratori, in parte vado a cercarla in libreria ma anche in biblioteca, ma anche on-line, e questo, con molta eleganza, lo definisco arare il terreno. Non riesco a leggerla tutta: alcune cose le leggo io, altre un piccolo gruppo di persone, che fanno delle specie di abstract, riassunti, dove mi segnano le pagine che devo vedere assolutamente. E tutto questo lo faccio senza pensare allo spettacolo, ma solo per essere sicura che quando dico quella parola vuol dire proprio quello, perché non è detto.
Nel caso di questo spettacolo mi sono divertita un sacco, perché ho imparato a scrivere i numeri anche in binario. Lo so che vi sembrerà una banalità, ma io mi sono sempre chiesta come funzionasse la traduzione. Me lo sono chiesta con la pigrizia di andare a cercare, per poi andare a cercare.
Quindi prima le persone, poi le persone di carta, e le persone di luce (cinema), anche se il cinema è già un’elaborazione della teoria. Infine, se ci sono altri spettacoli, cose già fatte. Però la prima cosa è andare a cercare conversazione. Successivamente comincio, con una serie di quaderni, ma semplicemente perché non posso permettermi uno di quegli schermi enormi con cui mettere in relazione tutti i file, perché ho bisogno di vedere l’insieme: alcuni riesco a contrapporli, ma nel mio schermino li fa troppo piccoli e non vedo; quindi, ho bisogno di un confronto sia di testi che di appunti. Spesso li metto per terra, svuoto una stanza, apro i fogli e i quaderni per terra e comincio a camminare il testo, anche perché poi in scena sono in piedi, non sto seduta dietro una scrivania.
Dopo che ho camminato gli argomenti, comincio a chiudere alcuni libri e a metterli via; non mi serviranno più, e in questo la tecnologia è così presente in tutte le azioni della nostra vita che sarebbe stato troppo, e da lì in poi comincia, forse, la scrittura del testo. Ma prima il viaggio è tutto questo, che si conclude camminando con tutti i testi, sia per terra che su grandi tavoli, che chiudo dicendo “questo no, questo no, questo no". Mi piacerebbe - una volta magari filmiamolo - quando faccio questo: dicono sia bello da vedere, mentre cammino i testi. E poi se vuoi ti dico come faccio a inventarli, però magari dopo. Anzi ti chiedo: “tu come fai? Voi come fate?” Non dico a preparare una lezione perché non è esattamente questo che volevo chiedere, però Paolo Volontè META, che viene indicata come l’unità di studi umanistici del Politecnico di Milano, hai voglia di spiegarmi come è successo? È una domanda che non vi ho mai fatto: come vi siete aggregati attorno a questo nome che è anche molto bello? META, meta-verso, questa traslazione di significato.
Non ci siamo in realtà aggregati intorno al nome META, ma ci siamo aggregati e poi ci siamo dati un nome, come sempre accade. Ci siamo dati questo nome e regolarmente le persone ci chiedono, ma META starebbe per? In realtà non è un acronimo, ma semplicemente vuol dire "andare al di là di”, perché l'idea è questa: ci siamo aggregati con l'idea di mettere insieme quelle competenze che ci sono dentro al Politecnico di Milano, di persone che vanno al di là o si fermano al di qua dello sviluppo della tecnologia, della ricerca scientifica e tecnologica e dall'esterno li guardano addosso. Cioè dall'esterno riflettono su quello che fa la ricerca scientifica e tecnologica, come lo fa, quali sono i processi, dove sta andando. Infatti, non è un'unità di studi umanistici e sociali, ma è un’unità di studi umanistici e sociali su scienza e tecnologia, cioè non raccogliamo le humanities come potrebbe fare un dipartimento di humanities dentro un’università tecnologica, ma raccogliamo quegli studiosi che si fermano a riflettere su scienze e tecnologia. Il nostro obiettivo è che queste competenze crescano dentro un’università tecnologica come il Politecnico di Milano, che vuole essere leader tra le università tecnologiche in giro per il mondo. Noi vogliamo che questa competenza cresca e diventi parte del DNA, tanto quanto la matematica, o le competenze scientifiche tecnologiche propriamente dette. Questo è un po’ il nostro obiettivo e da qui è nata la nostra idea di provare, attraverso il veicolo dello spettacolo teatrale, a coinvolgere, convogliare e trasmettere queste idee.
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Beh, questo è per dire che META vuol dire mettere assieme tanti accademici. Ti faccio un po’ di acronimi però è bellissimo che si chiami META in realtà, è proprio bello. Ma è anche vero che non siete solo studiosi di materie umanistiche, tra l’altro, perché io lì ho incontrato anche informatici e persone che si occupano di tecnologia. Non li nomino tutti perché sono veramente tanti, però mi sono stati veramente utili, ognuno nel suo settore. Nello spettacolo, di ciascuno ho messo un’idea, un suggerimento, un pensiero, una storia. Ricordo che quando ho chiesto ad un accademico “raccontami una storia” era sempre un po’ imbarazzato. “Come una storia?” “Quale storia?” Però poi le storie sono venute comunque a galla. C’è stato chi è stato con me molto più positivo nella visione di futuro, qualcuno più problematico, qualcuno fosco, ma devo dire scuro del tutto nessuno, cioè non ho avuto ansie sulle spalle, anche se l’argomento – lo dico anche nello spettacolo – viene trattato spessissimo in modo distopico, no?
I Big Data. Questo universo, sempre più, viene trattato in maniera catastrofista, fosca, scura… c’è, più che una cinematografia, una serie di film per il piccolo schermo di una fantascienza cupa, dove non voglio andare.
Nessuna delle persone che ho incontrato, forse perché ho incontrato scienziati, era particolarmente negativo sull’argomento. Devo dire che, però, ho anche trovato all’interno dell’accademia persone che non vedevano il problema, cioè molto distaccate dall’idea che su questo meraviglioso mondo nuovo, in cui si può fare, inventare e migliorare la vita, ci fosse il minimo problema da discutere. Addirittura, iper-super ottimisti.
Io penso che lo scienziato un po’ debba essere così. Perché non può all’inizio porsi problemi e avere troppa gente in quella testa. Se sei lo scienziato, il critico... troppa gente, devi fare il tuo lavoro.
Però devo dire che, come persona normalissima, mi consola molto che ci sia una unità di persone che pensa se quella cosa è compatibile con la vita oppure no, ecco. Compatibile con l’umanità, con il non trasformarci in umani consenzienti ad essere manovrati dall’esterno, o dalle macchine o attraverso le macchine, che è forse ancora più probabile.
Hai perfettamente ragione che non è possibile mettere troppe menti diverse dentro la stessa testa. Il nostro obbiettivo è però che l’ingegnere, il tecnologo del futuro, che è sempre di più un soggetto politico nel senso che sempre di più le scelte degli ingegneri di oggi, quando scrivono le loro stringhe di codice, determinano come vivremo domani. Sono scelte politiche perché determinano la vita delle persone, in parte ovviamente. Beh, allora quello che noi vorremmo è che almeno qua dietro, sul retro del cervello, rimanesse dentro la sensibilità per la domanda “dove porta questo?”. Perché la cultura scientifica e tecnologica è fatta di separazione dei problemi della vita: devi poterti concentrare sul problema tecnico per poterlo risolvere bene, altrimenti sulla luna non ci andiamo, ci andiamo solo se risolviamo tutti i problemi uno dopo l’altro, spezzettandoli e affrontandoli in maniera tecnica. Però se poi il risultato è il razzo che invece di portarci sulla luna ci porta la bomba sulla testa, allora qualche problema c’è. Allora se l’ingegnere fin dall’inizio avesse dentro la testa la sensibilità per farsi questa domanda, forse la presenza della tecnologia nella nostra vita sarebbe meno inquietante, diciamo.
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Meno inquietante, vero. Io devo dire di averne incontrati diversi, cioè diversi ingegneri che si pongono il problema. Io ti chiedo: “il problema non è a monte?” C’è la necessità di costruire una università che si ponga il problema, che si ponga sia l’ingegnere sia l’umanista, cioè che renda questa relazione visibile, concreta e normata. Perché quello che mi è sembrato di vedere è una oggettiva separazione tra le materie, le discipline che quand’anche ci fosse – e c’è – l’ingegnere, una tecnologia che riflette, non lo può fare lì, ecco. Quello che è interessante è se fin dall’inizio ci fossero, non lo so se si possano chiamare dipartimenti, non mi fare dire la dizione esatta perché non lo so, ma se fin dall’inizio, invece che compartimenti separati – ed è quello che dice lo spettacolo – fossero previsti, anche normati, anche spazialmente, uno spazio-tempo perché le persone si incontrino su questo argomento. Può benissimo essere che un umanista si faccia dei problemi e se li fa anche l’ingegnere, ma se non c’è lo spazio-tempo perché si incontrino, allora questo non avviene. È proprio questo che mi è interessato della proposta del Politecnico, perché uno spettacolo come quello che abbiamo fatto qua è uno spazio e un tempo, perché queste tematiche si incontrino e parlino con i soggetti politici e i soggetti sociali. Questo è forte, perché avviene. Lanciare il problema e poi non trovare lo spazio; voglio dire: dove pubblica? Dove pubblica un ingegnere che si pone problemi di etica, dove pubblica un docente di etica che vuole parlare di ingegneria degli algoritmi? Cioè come si fa?
Hai toccato un punto assolutamente fondamentale, che è anche quello che stiamo cercando di fare con META. Come dicevi prima hai incontrato ingegneri e altre personalità, cioè META è una rete interdisciplinare, ed una cosa che stiamo facendo è cercare di inserire giovani studiosi, filosofi e sociologi dentro all’equipe di ricerca degli ingegneri, in maniera che ci sia questo spazio fisico e questo tempo che non sia un incrocio momentaneo (come può magari essere la serata a teatro): è una vita, una crescita professionale comune e questo è quello che stiamo cercando di fare.
E quindi poi che soluzioni drammaturgiche hai trovato per affrontare questa tematica, che immagino sia molto difficile?
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Lo è, infatti ho anche rischiato di non farlo, perché ad un certo punto ho detto “no, troppo”, però poi sono testarda.
Allora, all’inizio ho pensato di cavarmela con una scorciatoia: faccio uno spettacolo minimalista, moderno, immagini, sai? Una scorciatoia di quelle proprio (semplici)… musica, video, immagini… uno spettacolo multi-linguaggio che vuol dire non parlare di niente. Però magari è emotivamente anche bello, no? Poi – e tu ne sei stato testimone – ad un certo punto ho pensato: “ambiento tutto in un casinò”, queste slot machine, questa lotteria, quasi scommesse di vita, no? Che cosa verrà fuori? Questo scommettere con ansia… Però non è vero che la tecnologia è; c’è anche questo nella tecnologia contemporanea. Di solito al casino vince il casinò e lo stato. Nella tecnologia contemporanea, in alcuni ambiti rischia di vincere solo il casinò, e qualche volta solo lo stato. O la politica o il business.
Per cui non andava bene, non era vero, non è vero che è così. Allora ho pensato al luna park, cioè un luogo di grande sostegno dell’umore dell’umanità, no? La creazione di società ludiche dove tutti sono manovrati dall’esterno, dal grande giostraio, dai padroni delle giostre, però non stai così male, no? Ti fa il tuo zucchero filato; se sei uno molto pieno di energie o morale che ha bisogno delle grandi paure vai giù per le montagne russe o entri dentro agli specchi, e la vita degli umani è grandi emozioni di montagne russe, grandi abbuffate di zucchero filato, musica... anche questo è un tipo di società che potremmo aspettarci, tutti un po’ addormentati, se con lo zucchero o con qualcos’altro dipenderà da cosa tirano fuori. Ma anche questo mi sembrava veramente, come posso dire? Frusta come immagine. Non riuscivo a trovare…
E poi la risoluzione per me è stata quando ho detto “ma tu dove vivi?”. Io vivo più nei B&B (prima della pandemia) che a casa. Dove vivo? Vivo in questo che somiglia un po’ al circo, un po’ al casino, perché non so mai se finirò in uno che è veramente come le foto o se sarà… e ogni volta è un po’ un azzardo, che però coinvolge la mia vita. Ci sono stati posti che ho dovuto dormire con il berretto in testa, ed erano 4 stelle, dove mi dicevano “mi spiace signora, sa, ci si è rotta la caldaia”. Questo azzardo dove hai qualche indicazione, un ambiente molto diffuso, molto di un’economia contemporanea, che non è più quella del mobile delle chiavi.
Da lì ho poi pensato al mobile delle chiavi. Una cosa che è sparita negli alberghi, non c’è più il mobile delle chiavi. Primo perché non ci sono più le chiavi, ma abbiamo le card; secondo perché non c’è più la posta. Nel mobile delle chiavi il portiere metteva le lettere, e ora non c’è più. È cambiato completamente il nostro modo di vivere l’altrove, che non è casa, ma è l’altrove. E mi sono inventata questa signora che apre un B&B vicino all’università: questa signora ha un segreto personale di cui non vuol parlare e si è tolta da qualsiasi mezzo online (Facebook, posta elettronica, ecc.). Non vuole più sapere niente della tecnologia, ma fa gestire il B&B alla figlia di un’amica, che invece è una appassionata di device, e ha affidato tutto quello che è la gestione tecnologica del suo lavoro a questa ragazza. Ospita tutte persone che hanno a che fare con la rete in qualche modo, quindi sia scienziati che sociologi, che antropologi - e tutto quello che mi hai appena descritto - e libera dalla gestione – perché se ne occupa Fabrizia – può dedicarsi alla sua seconda passione, che è fare intrugli con le erbe. Intrugli per la quale non ha nessuna competenza, semplicemente la competenza che tutti noi possiamo avere sfogliando un libro, ricordando i ricordi delle zie, eccetera. E questi intrugli, questi mix, alcuni dei quali anche efficienti per carità, sono diventati una metafora – neanche tanto sottesa – di quello che si può fare con questi strumenti se lasciati in balia di una pazza come questa signora.
Naturalmente la signora ha solo queste sue erbette, non può fare male più di tanto. Però attraverso quella metafora e quello che le accade, e quello che i suoi ospiti, che sono invece persone per bene, le raccontano, racconto moltissime storie al pubblico. Tutte queste storie hanno a che fare con i big data, con l’AI, con il machine learning, con i sistemi giudicanti automatici e con tutto quello che adesso popola la nostra vita. Ed è curioso: mentre con gli altri le idee che mi venivano arrivano fino ad un certo punto e poi non riuscivo ad andare avanti, - non so se questo accade anche quando fai una sceneggiatura di cinema - lei ad un certo punto ha preso la tastiera. Si scriveva da sola. Per le altre facevo fatica; lei ha cominciato a scriversi da sola, tanto che ad un certo punto le ho detto “adesso stai zitta” perché non potevo farle fare tutto. Però come ben sai il primo testo era lunghissimo. E lei ha scritto con una velocità, a quel punto, che stupiva anche me stessa, una velocità che, per finirlo, ho dovuto legarmi alla sedia come Alfieri. Perché dopo un po’ era scritto, ma poi bisognava pulirlo, e io non ne potevo più, non avevo più voglia.
Non so se a te capita che nella bordata finale non hai più voglia di farlo. Allora ho persino fatto in modo di spegnere il riscaldamento, coprirmi moltissimo per lavorare al freddo, dicendo “finché non è finito non ti alzi di qui”, e quello ho fatto.
Lei ad un certo punto ha preso la voce ed ha cominciato a scrivere, ma è una così, è una che basta che funzioni, no? Che ne so io cosa c’è nelle mie tisane, il loro lavoro lo fanno, basta che funzioni.
Basta che funzioni, forse la morale di questo spettacolo sta in questo, che dobbiamo smetterla di accontentarci che funzioni, che funzionino i nostri computer, che funzionino le piattaforme web che usiamo. Dobbiamo cominciare a ragionare su come funzionano, perché funzionano e che cosa ci sta dietro.
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Si, nello spettacolo dico: “devono funzionare bene”, punto, pausa “e bene per tutti”. Quando fai una messa in scena vuoi dire un certo numero di cose, poi quando fai un incontro con il pubblico, il pubblico ne capisce altre, ma va benissimo. Lavoro da molto tempo con Lucio Diana, lo scenografo, e lui ha interpretato benissimo la faccenda del mobile delle chiavi, che non è più il mobile delle chiavi, ma diventa una sorta di luogo, cioè una scacchiera, una libreria, tipo una libreria cinese, quelle che sono estremamente regolari, ed in ognuna ci sono lasciti di una persona. Per lo scienziato, c’è un modello scientifico, c’è un computer; in un atro c’è un salvadanaio per un tizio particolarmente parsimonioso, ma quella è come dire, un riassunto dell’umanità che passa di lì. E quella umanità deve essere il centro del pensiero, deve funzionare bene e deve funzionare bene per tutti.
Queste nuove tecnologie hanno un grandissimo potere: nella scena di Lucio Diana c’è anche una scala a chiocciola, ascendente, che io gli ho chiesto perché questo teatro si sviluppa molto in altezza rispetto alla larghezza. Gli ho chiesto: “dobbiamo poter salire visivamente e deve esserci un altrove, un fuori che è in alto, in modo tale che lei è un po’ rintanata in casa”. Bene, qualcuno del pubblico – e questo mi fa piacere – ma non c’era questa intenzione, ma è bellissimo che lo abbiano detto, ha letto la scala a chiocciola come spirale del DNA. Cioè la necessita di salvare i fondamentali umani. Sempre, attraverso qualsiasi trasformazione, senza avere paura dei cambiamenti, senza volere essere persone. La signora ad un certo punto dice “io mica voglio tornare a prendere l’acqua al pozzo, non sono luddista ma è il momento di metterci d’accordo su queste faccende”.
Ci sarebbe ancora tantissimo da dire, io avrei tantissime curiosità su quello che succede al Politecnico in questo momento. Vorrei aprire le porte di quei laboratori, e spero di avere un’altra occasione, ma quello che mi auguro di più è che questo sodalizio, che parte su tanti fronti, non solo sullo spettacolo - perché ho visto che ci sono tantissime iniziative in quella direzione - abbia avuto nello spettacolo una gocciolina anche di energia e di coraggio. Spero di aver fatto uno spettacolo che si ascolta volentieri: il mio obbiettivo è che le persone escano con più energia di quando sono entrate.
Penso senz’altro che sia così, io l’ho visto e mi sono molto divertito e penso e sono convinto che le persone escano con più energia, con più consapevolezza e con più pensieri anche nella testa.
Ti ringrazio moltissimo Laura e ci sarà senz’altro qualche altra occasione per collaborare.
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Grazie Paolo, mi hai chiuso il finale perché volevo dire “beh allora facciamone un altro”. Grazie e buon lavoro.
Anche a te!